Il Poderino della paura

Ormai è un rudere abbandonato, una macchia biancastra avvolta dai rovi e dalle erbe infestanti. Una volta, invece, era una florida azienda dove abitava una famiglia di mezzadri e il pane non mancava mai.

La leggenda narra che un giorno il più giovane della famiglia si ammalò di difterite, diagnosticata dal medico che andò apposta da Magliano. Purtroppo le cure del medico non sortirono alcun effetto e il giovane morì. Essendo una malattia molto contagiosa la casa venne isolata e lo stesso funerale fu celebrato di notte per evitare di contagiare i paesani. I familiari, con la bocca coperta da una maschera d’aglio, portarono il feretro fino al cimitero, fra stradelle buie e viottoli di campagna. Fu un tragitto faticoso, in mezzo agli scornabecchi, i peruzzi e le marruche di banditaccia, fino al fiume Patrignone e poi dalla cava fino su all’oliveto. Al cimitero la cassa fu sepolta e poi ricoperta di calce e, a mezzanotte, fecero ritorno tutti a casa. Il tempo passò e la famiglia, con il dolore nel cuore, tornò alla normalità della vita di tutti i giorni. Una sera, dopo cena, uno strano colpo di vento spense il lume a petrolio, facendo sprofondare la cucina nel buio. Mentre tutti cercavano di recuperare dei fiammiferi si sentì il rumore di uno schiaffo, seguito da quello di cazzotti sul tavolo. Al riaccendersi del lume grande fu lo stupore di tutti nel vedere Tonino, il figlio più grande, che si teneva la guancia con una mano.

Che scherzi fate ? Disse Tonino. Ma tutti, serissimi, giurarono di non aver fatto assolutamente niente. La sorpresa di quella sera si tramutò in paura quando, all’approssimarsi di ogni sera, eventi come questo si ripetevano e anche con più violenza. Chiamarono anche un prete, ma sembrò sortire l’effetto opposto perché la violenza aumentò.

Decisero così di chiamare Anaceto, il più potente stregone maremmano di quei tempi. Anaceto dette loro la brutta notiza, la casa non era invasa dagli spiriti ma da uno solo: il figlio morto tanti anni fa. Privata delle funzioni religiose l’anima del ragazzo era stata condannata a vagare senza riposo e senza possibilità di acquietarsi. Il verdetto fu terribile : abbandonare il podere. E così fecero. Il podere andò così in malora.

Ma questo non ha placato l’anima del giovane, che ancora vaga lì nei dintorni in cerca di vendetta. Una sera un cacciatore si era fermato in prossimità della casa. Il tempo non prometteva niente di buono, infatti verso l’Argentario era nero come un prete e il temporale gorgogliava. Cominciò a piovere e il cacciatore dovette ripararsi in quel che rimaneva del podere, accendendosi un fuoco con qualche sterpaglia per riscaldarsi. Ad un certo punto udì un latrato, lugubre e inquietante e d’istinto guardò il fucile, quasi a cercare conforto. Più passava il tempo più gli fu chiaro che fuori ci fosse qualcuno o qualcosa. Alla fine lo vide, un capriolo, sul vano della porta diroccata, lo stava guardando con aria minacciosa. Gli occhi mandavano bagliori di fuoco e dal naso sbuffava fume dall’odore di zolfo bruciato. I corni, a tre palchi, erano d’argento. Il giovane cacciatore, non si sa perché, cominciò a recitare le preghiere dei morti ma poco altro si sa se non che si salvò. Fatto st ache il giorno dopo la folta capigliatura nera del ragazzo era diventata completamente bianca.